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lunedì 11 ottobre 2010

Outsourcing identity

RIPUBBLICO QUI un post che ho pubblicato la settimana scorsa sul mio blog. Forse può essere utile per introdurre qualche discussione sul rapporto tra identità e nuove forme di comunicazione.
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Lunedì scorso, 4 ottobre, cinque mie studentesse hanno presentato ai loro colleghi le relazioni sulle loro “ricerche etnografiche” (lo scrivo tra virgolette perché si tratta di abbozzi, di primi passi, a volte quasi di parodie di etnografie, a me serve per farle confrontare con la metodologia dell’osservazione partecipante, non pretendo che con 12 cfu di antropologia culturale, gli unici della loro formazione, ne escano etnografe fatte e finite).
Eppure, grazie comunque al lavoro diretto, “sul campo”, ricavo sempre spunti importanti di riflessione da queste presentazioni dei miei studenti.
Alessandra Romaniello ha presentato il suo lavoro su YouTube come nuovo “maestro unico” dell’identità (ci torno più avanti). Elisa Pedanesi ci ha raccontato il suo lavoro sulla trasmissione del sapere nell’era degli archivi elettronici: come le mamme usano YouTube (e altre fonti audio-video) per insegnare ai figli (spesso alle figlie) le canzoni e le storie dei cartoni animati (giapponesi).
Elisa Gallo ha fatto un accurato shadowing per verificare il rapporto tra identità online e offline, individuando anche forti discrepanze tra le due dimensioni.
Alessia Bendia ha studiato la pagina facebook di “Roma sparita”, e anche grazie a un’approfondita intervista con alcuni degli ideatori della pagina ci ha offerto un quadro attuale di un sentimento meno antico di quel che si crede: la nostalgia.
Clarissa Napoleoni, infine, ha raccontato l’uso di Facebook come fonte di interazione sociale, di malinteso, di comunicazione indiretta. E di pettegolezzo.
Alcuni temi sembrano riproporsi trasversalmente alle ricerche: il culto della memoriaintesa come recupero nostalgico di un passato fortemente idealizzato (Pedanesi e Bendia); lo scollamento tra quel che si percepisce e si rappresenta di sé online e offline (Gallo e Napoleoni); internet come uno spazio sempre più pervasivo nellacostruzione identitaria dei soggetti (tutte le relazioni).
A proposito di quest’ultimo tema, mi sembra particolarmente rilevante un punto posto in evidenza nella relazione di Alessandra Romaniello, vale a dire l’adesione identitaria come pratica di apprendimento esplicito.
Durante le prime lezioni di antropologia culturale, insisto molto sul fatto che “la cultura” è una forma di sapere appreso, che quindi si contrappone a tutto quel (poco) che invece gli uomini sanno fare “per istinto”. La cultura, dico loro con uno slogan, è tutto quel che gli uomini fanno e sanno avendolo imparato, cioè è tutto il sapere non innato.
Appena questo punto è chiaro, però, approfondisco il concetto di “apprendimento”, per far capire a chi si avvicina all’antropologia per la prima volta che imparare non significa necessariamente porsi in un contesto formale (una scuola) dove i ruoli sono chiari (docenti, discenti) e altrettanto chiaro è l’oggetto dell’apprendimento (rosa, rosae, rosae…). Una parte non indifferente di quel che sappiamo e facciamo è in realtàappreso in maniera del tutto informale, vale a dire non sappiamo chi ce l’ha insegnato, quando l’abbiamo imparato, e  spesso non sappiamo neppure di saperlo, fin quando un contesto contrastivo non ci costringe a prenderne consapevolezza: dalla lingua (con le sue inflessioni regionali e connotazioni di genere, di classe sociale, di fascia d’età e di livello di istruzione, ad esempio) al “gusto”, vale a dire la consapevolezza di quel che ci piace e non ci piace. A questo punto, senza dirglielo, contrabbando un po’ di Bourdieu, di habitus e di capitale culturale. Solitamente chiamo alla cattedra un paio di studenti e chiedo loro un esempio di musica “bella” e di musica “che fa schifo”, oppure un esempio di abbigliamento “fico” e di abbigliamento “cafone” e così dimostro loro come tutti abbiano le idee piuttosto chiare (pur se non necessariamente in accordo tra loro), eppure non sono assolutamente in grado di raccontarmi dove e da chi hanno appreso quelle competenze.
Detto molto all’incirca, il gusto “libero” (come lo definisce Bourdieu) vale a dire quello che non si impara a scuola (i gusti culinari, lo stile con cui ci vestiamo o arrediamola nostra casa/camera) è una colonna fondamentale della nostra “identità”, e la sua apparente libertà dipende(va) proprio dall’informalità dentro cui era appreso. Avere quellapassione per quel cantante, essere maniaci di quel capo di vestiario, preferire quel cibo e detestare quell’altro, sono sempre state forme di sapere che abbiamo sentito profondamente “nostre” (e quindi fondative della nostra soggettività, produttrici di identità) proprio perché non ci siamo mai resi conto di come e dove le abbiamo apprese. Ora, anche se Bourdieu, tra gli altri, ci ha dimostrato in modo inequivocabile che c’è sempre una correlazione precisa tra specifici gusti supposti “liberi” e specifiche porzioni di classe, anche se insomma la ricerca ci ha dimostrato che siamo ben poco “liberi” in quel che ci piace e non ci piace, contava, dal punto di vista del soggetto “desiderante”, “optante” e “identificante” la convinzione di aver elaborato un proprio gusto senza fare riferimenti a precisi maestri. Certo, i role models sono sempre esistiti ma erano merce a disponibilità estremamente limitata, soprattutto difficili da fruire proprio nel loro ruolo di modelli sociali, sempre distanti, sempre avvolti un’aura sacrale. E, certo, non va dimenticato che il campo sociale si frammenta di fatto in gruppi riconoscibili, in raggruppamenti che gravitano attorno a specifici gusti e pratiche, vale a dire a sottoclassi, a “bande” e gruppi autoidentificati ai quali si accede con diverse modalità e che sono in grado di canalizzare con un certo rigore formale le forme di appartenenza degli adepti, ma in questi casi è ancora il desiderio di socialità (stare nel gruppo) che impone l’adesione identitaria (la “divisa” e i gusti del gruppo) e non viceversa (il bisogno di identità individuale che spinge ad aderire a un gruppo)

Bene, se questo era il quadro canonico, i tutorial che oggi proliferano su YouTube e in generale l’informazione esplicita resa disponibile su Internet sembrano in grado di cambiare la situazione in modo radicale.
Oggi un/a ragazzo/a che voglia appartenere a un gruppo non ha più bisogno di aspettare che il suo “modulo di adesione” sia in ben accetto al gruppo e può invertire le modalità dell’identità semplicemente apprendendo in modo del tutto formale ed esplicito quali siano le regole che fanno di un individuo un rappresentante del gruppo x. Un tale che abbia il desiderio di diventare modgothemoscene queentruzzo o qualunque altra forma di identità collettiva, e che “prima di YouTube” era costretto a passare per le forche caudine dell’iniziazione, dell’ingresso fisico nel gruppo (per poi assorbirne in parte per impregnazione i gusti e le modalità di comportamento) oggi può seguire i “tutorial” e i siti dedicati, imparare le lezioni (perché di questo di tratta, di lezioni) per assumere quell’identità in modo del tutto consapevole, vale a dire depauperato dell’aura della “libertà” e della “spontaneità”.
Non so che conseguenze possa avere questo nuovo tipo di apprendimento dell’identità (da largamente informale e non regolato a largamente formalizzato e sottoposto a un codice), ma ho l’impressione che il risultato finale siano identità paradossalmente meno investite emotivamente eppure più nitide nei loro confini. Essere “un capellone” negli anni Sessanta significava una nebulosa molto variegata di comportamenti e di scelte morali, e certo oggi essere un truzzo o un goth non è meno complicato in termini di adesione morale e di pratiche di vite. Essere qualcuno è sempre un’arte raffinata e sottile. Ma la differenza è nello stile didattico, per così dire. Mentre il capellone, che aveva appreso per imitazioni estemporanee, per successivi e cumulativi micro-investimenti emotivi sentiva un’adesione profonda alla sua maschera, che gli scavava dentro l’anima, le identità pret-a-porter disponibili tramite la rete non perdono mai la loro valenza di maschera, tanto meno per chi le porta, che rimane quindi sostanzialmente scollato dal suo involucro esterno, l’unico che mette a disposizione del pubblico. Il capellone, per dire, finiva per non rendersi conto di essere diventatocapellone, e poteva pensare che la capellonitudine fosse la sua vera identità, mentre il truzzo sa benissimo (e il tutorial è lì a ricordaglielo costantemente) che è quel che è solo perché l’ha imparato, e come oggi si mette quella maschera, così domani se ne potrà metter un’altra.
Questa conformazione identitaria “usa-ed-eventualmente-getta” deve basarsi su una costante marcatura delle differenze: mente un capellone, cioè, era più preoccupato di quel che lui poteva fare in quanto capellone, il goth o il mod o il truzzo deve sempre preoccuparsi di tracciare il confine, di mettere i puntini sulle i della propria definizione. Non si contano i post (su YouTube e su siti dedicati) che hanno come unico intento proprio quello di chiarire il punto: questo non è veramente goth, questo non èassolutamente emo, e così via. Del resto, per un’identità di questo tipo, tuttaesternalizzata, tutta demandata a specifiche fonti produttive esterne al soggetto, non c’è via di scampo: si è quel che si definisce di essere. Non si è più per quel che si fa, ma per quel che si dice, e la de-finizione diventa essenziale, costitutiva, l’unica cosa che veramente conta. Conta al punto che invece di provare a costruirne l’alchimia un poco per volta, ognuno a modo suo, la si prende già fatta, già delimitata, pronta per l’uso.
Tutto questo identificarsi mi lascia però un senso di insoddisfazione, come se fosse un modo per ridare vita a un’antica battuta (mi pare di Achille Campanile): se non riuscite a fare la cacca, compratela già fatta.

lunedì 19 aprile 2010

relazioni ed eventi, online e offline e consiglio bibliografico

Grazie a tutti (tutte anzi) per i post che sono sempre stimolanti. Provo qui a tirare un poco le fila di alcune suggestioni, senza pretesa di essere esaustivo (anche perché a quest'ora essere esaustivo sarebbe proprio dura).
1. Sara B. e Carlotta affrontano due questioni complementari. La prima il passaggio delle relazioni sociali individuali dal web alla "vita reale" (cito, ma dico subito che non mi piace l'espressione, come se stare davanti al pc a chattare o postare su Fb non fosse vita reale; preferisco l'opposizione online/offline per distinguere i due momenti di interazione, che sono parimenti reali, per come la vedo io), mentre Carlotta si pone la questione collettiva degli eventi, sempre nel loro passaggio on- off-line. Su questo ho provato a ragionare proprio da poco e su buzz è uscita una microdiscussione che può dare qualche contributo. In sostanza, il punto forte della mia argomentazione è che dentro i SN ci mettiamo un sacco di investimento emotivo, ma non è ben chiara (almeno a me) la natura di questo investimento, che chiamiamo "amicizia" ma amicizia non è, che ci fa stare male quando si scolla troppo tra on- e off-line (quando quel che succede online in termini di partecipazione non riesce a riprodursi con intensità comparabile offline) e che insomma non ha ancora un nome sociale, dato che si tratta di uno stato d'animo direi nuovo. Un conto è avere un progetto e non vederlo realizzato (frustrazione), un conto è avere degli amici e sentirsi traditi (delusione) ma non sappiamo ancora come nominare un "progetto di relazione" che a me sembra un modo utile di definire i SN. I miei 500 amici su Fb sono in buona parte delle crisalidi, degli embrioni, delle potenzialità (o almeno, io da qualche parte dentro di me li vedo in questo modo) e le proposte di travaso offline sono il tentativo di verificare (o la speranza di confermare) quella "disposizione all'amicizia" (dispositio in senso proprio aristotelico-tomista, una sorta di precondizione, di orientamento generale per poter ipotizzare un'attività). Si tratta, mi pare, di una forma di relazione sostanzialmente nuova. Finora, i "conoscenti" erano tali non solo per il limitato coinvolgimento emotivo con cui li trattavamo, ma anche per la limitata strumentazione di comunicazione nei loro confronti: di un conoscente non si aveva il telefono o l'indirizzo ed entrarci in contatto voleva dire trovare un mediatore. Adesso, con Fb e i SN in generale, possiamo comunicare immediatamente e intimamente con dei conoscenti come fino a poco fa facevamo solo con gli amici, e questo secondo me produce diversi scompensi emotivi che andrebbero indagati secondo questa linea di ricerca, sia nella relazione diadica  o personale (come mi pare interessi a Sara B.) sia nella sua dimensione collettiva (Carlotta).
2. Sullo shadowing non ho riferimenti bibliografici oltre a quello utilissimamente commentato da Alessandra Checchetto, ma mi sento di suggerire una lettura più generale sulla ricerca sul campo perché affronta molti dei temi che stiamo dibattendo (interferenza dell'osservatore, realtà della rappresentazione etnografica, produzione del dato vs perdita del dato per calo di attenzione) anche se lo fa senza alcun riferimento ai SN o all'antropologia visuale (anzi, è un po' attardato a descrivere un mondo "prima dei media" direi). Si tratta di
Jean Pierre Olivier de Sardan (il cognome è Olivier de Sardan), La politica del campo. Sulla produzione di dati in antropologia, originariamente pubblicato nel 1995 in francese, di cui ora esiste un'ottima traduzione in Francesca Cappelleto (a cura di), Vivece l'etnografia, Firenze, Seid, 2009, pp.27-63. Si tratta di un testo densissimo ma che riesce a dar conto di un sacco di questioni teoriche e pratiche della ricerca sul campo, molte delle quali potrebbero interessare quante si apprestano a partire con le loro ricerche etnografiche. E' meritorio lo sforzo di sistematizzare una metodologia per certi versi inafferrabile, senza ridurla a ridicoli tecnicismi e senza occultarla dietro un alone quasi misticheggiante. Oltre a insistere sulla "politica del terreno", mettendo in luce l'interazione tra l'etnografo e la complessità sociale del gruppo che studia (forse meno interessante per noi che per ora ci limitiamo a studiare a fondo pochi soggetti percepiti come individui), il saggio è illuminante nel modo in cui descrive in dettaglio le quattro fonti dei dati antropologici, vale a dire: 1. osservazione partecipante; 2) colloqui; 3) censimenti e 4) fonti scritte. Io credo che una lettura almeno di questa parte potrebbe essere molto utile a tutti per la metodologia, dato che molte delle domande che ci stiamo facendo trovano in questa ripartizione delle modalità di raccolta dei dati diverse proposte di risposta interessanti.