Grazie a tutti (tutte anzi) per i post che sono sempre stimolanti. Provo qui a tirare un poco le fila di alcune suggestioni, senza pretesa di essere esaustivo (anche perché a quest'ora essere esaustivo sarebbe proprio dura).
1. Sara B. e Carlotta affrontano due questioni complementari. La prima il passaggio delle relazioni sociali individuali dal web alla "vita reale" (cito, ma dico subito che non mi piace l'espressione, come se stare davanti al pc a chattare o postare su Fb non fosse vita reale; preferisco l'opposizione online/offline per distinguere i due momenti di interazione, che sono parimenti reali, per come la vedo io), mentre Carlotta si pone la questione collettiva degli eventi, sempre nel loro passaggio on- off-line. Su questo ho provato a ragionare proprio da poco e su buzz è uscita una microdiscussione che può dare qualche contributo. In sostanza, il punto forte della mia argomentazione è che dentro i SN ci mettiamo un sacco di investimento emotivo, ma non è ben chiara (almeno a me) la natura di questo investimento, che chiamiamo "amicizia" ma amicizia non è, che ci fa stare male quando si scolla troppo tra on- e off-line (quando quel che succede online in termini di partecipazione non riesce a riprodursi con intensità comparabile offline) e che insomma non ha ancora un nome sociale, dato che si tratta di uno stato d'animo direi nuovo. Un conto è avere un progetto e non vederlo realizzato (frustrazione), un conto è avere degli amici e sentirsi traditi (delusione) ma non sappiamo ancora come nominare un "progetto di relazione" che a me sembra un modo utile di definire i SN. I miei 500 amici su Fb sono in buona parte delle crisalidi, degli embrioni, delle potenzialità (o almeno, io da qualche parte dentro di me li vedo in questo modo) e le proposte di travaso offline sono il tentativo di verificare (o la speranza di confermare) quella "disposizione all'amicizia" (dispositio in senso proprio aristotelico-tomista, una sorta di precondizione, di orientamento generale per poter ipotizzare un'attività). Si tratta, mi pare, di una forma di relazione sostanzialmente nuova. Finora, i "conoscenti" erano tali non solo per il limitato coinvolgimento emotivo con cui li trattavamo, ma anche per la limitata strumentazione di comunicazione nei loro confronti: di un conoscente non si aveva il telefono o l'indirizzo ed entrarci in contatto voleva dire trovare un mediatore. Adesso, con Fb e i SN in generale, possiamo comunicare immediatamente e intimamente con dei conoscenti come fino a poco fa facevamo solo con gli amici, e questo secondo me produce diversi scompensi emotivi che andrebbero indagati secondo questa linea di ricerca, sia nella relazione diadica o personale (come mi pare interessi a Sara B.) sia nella sua dimensione collettiva (Carlotta).
2. Sullo shadowing non ho riferimenti bibliografici oltre a quello utilissimamente commentato da Alessandra Checchetto, ma mi sento di suggerire una lettura più generale sulla ricerca sul campo perché affronta molti dei temi che stiamo dibattendo (interferenza dell'osservatore, realtà della rappresentazione etnografica, produzione del dato vs perdita del dato per calo di attenzione) anche se lo fa senza alcun riferimento ai SN o all'antropologia visuale (anzi, è un po' attardato a descrivere un mondo "prima dei media" direi). Si tratta di
Jean Pierre Olivier de Sardan (il cognome è Olivier de Sardan), La politica del campo. Sulla produzione di dati in antropologia, originariamente pubblicato nel 1995 in francese, di cui ora esiste un'ottima traduzione in Francesca Cappelleto (a cura di), Vivece l'etnografia, Firenze, Seid, 2009, pp.27-63. Si tratta di un testo densissimo ma che riesce a dar conto di un sacco di questioni teoriche e pratiche della ricerca sul campo, molte delle quali potrebbero interessare quante si apprestano a partire con le loro ricerche etnografiche. E' meritorio lo sforzo di sistematizzare una metodologia per certi versi inafferrabile, senza ridurla a ridicoli tecnicismi e senza occultarla dietro un alone quasi misticheggiante. Oltre a insistere sulla "politica del terreno", mettendo in luce l'interazione tra l'etnografo e la complessità sociale del gruppo che studia (forse meno interessante per noi che per ora ci limitiamo a studiare a fondo pochi soggetti percepiti come individui), il saggio è illuminante nel modo in cui descrive in dettaglio le quattro fonti dei dati antropologici, vale a dire: 1. osservazione partecipante; 2) colloqui; 3) censimenti e 4) fonti scritte. Io credo che una lettura almeno di questa parte potrebbe essere molto utile a tutti per la metodologia, dato che molte delle domande che ci stiamo facendo trovano in questa ripartizione delle modalità di raccolta dei dati diverse proposte di risposta interessanti.
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