sabato 10 aprile 2010

Buonasera a tutti..ad una prima visione dei diversi video registrati durante l'ultima lezione ho pensato alla domanda posta da Francesco sul come e quanto la presenza della telecamera possa influenzare le risposte del/i soggetto/i intervistato/i e mi trovo in accordo con Martina nel pensare che un'influenza, seppur minima, ci deve essere..ragionando anche sulla situazione che si crea tra due individui coinvolti in una conversazione e con l'aiuto del concetto ormai noto utilizzato da Fabietti, non posso fare altro che pensare alla creazione di questo cosiddetto "mondo terzo", venutosi a creare proprio grazie alle diverse esperienze che i due interlocutori “mettono in campo”. Mi chiedo però se il fatto che sia logico pensare ad una naturale modificazione dell'ambiente non possa anche far riflettere sul fatto se questa influenza possa essere positiva o anche in parte leggermente negativa per la nostra ricerca..cerco di spiegarmi meglio: noi consideriamo naturale il fatto che un ambiente sia influenzato in parte dall'uso di mezzi audiovisivi o dalla nostra stessa presenza..ma questo non porta a pensare che il risultato delle nostre ricerche resti sempre in parte leggermente falsato dalla volontà di quelllo che il soggetto intervistato decide di far vedere di sè?! La mia domanda non vuole essere una critica, è semplicemente una sorta di considerazione sul fatto che forse nelle ricerche che riguardano altri soggetti non è sempre il 100% che corrisponde a verità, ma noi ci mettiamo “nelle mani” del nostro interlocutore e decidiamo di analizzare le sue risposte, che però magari possono essere state falsate in parte..o magari no. Su un lungo periodo invece, come è stato detto anche nei video che ho guardato, penso che l'abitudine al mezzo audiovisivo possa portare ad una maggiore naturalezza e “sincerità” del soggetto stesso. Queste naturalmente sono le mie prime considerazioni a caldo..voi cosa ne pensate a riguardo?
Buona serata a tutti..a presto:)

3 commenti:

  1. Per quanto riguarda l'interferenza del mezzo nella registrazione di certe pratiche o di certi valori, ci sono studi fin dalla fine dgli anni 60. Labov nel suo famoso lavoro (del 1970) si Sociologinguistica (allora si usavano solo i registratori) per cercare registri fonetici meno controllati consigliava di invogliare l'informatore a parlare di situazioni emotivamente coinvolgenti (sei mai stato in pericolo di vita? Mi racconti la storia?) e solitamente c'era un vero e proprio crollo di attenzione verso lo stile di enunciazione, per cui il ricercatore poteva raccogliere dati sia su un parlante estremamente "controllato" (con domande del tipo: "come ti sembra che sia la tua pronuncia?") e domande invece che spostano l'attenzione del parlante su tutt'altro aspetto della comunicazione (in coinvolgimento emotivo di raccontare una scena di pericolo). Credo che per la nostra ricerca su SN potremmo pensare di ragionare sulla stessa lunghezza d'onda. Come antropologi, sappiamo che non c'è una "verità" dell'identità delle persone, ma solo persone che mettono in scena (in senso goffmaniano) maschere identitarie a seconda del contesto e degli interlocutori. La loro maschera sociale proposta su Fb è diversa da quella che possono articolare di fronte a una telecamera, ma io credo che la discrepanza sia minore che in altri casi (intervistare un monaco di clausura, per indicare un caso estremo) dato che quel che cerchiamo è comunque una forma di espressione identitaria veicolata da un medium elettronico. Possiamo comunque fare come Labov, e vedere se il soggetto ha voglia/disponibilità di parlare di momenti più coinvolgenti. Intendo dire che, metodologicamente, può essere vantaggioso INCALZARE il soggetto con domande "imbarazzanti", che lo spingeranno a concentrarsi non tanto sul canale di comunicazione (la videocamera con cui lo stiamo riprendendo) ma sul "contenuto" della comunicazione. Credo che sia l'effetto che si verifica nei reality, per cui, alla fine, tutti presi tra gelosie, rivalità e amorazzi, i protagonisti finiscono, alquanto paradossalmente, per prendere "sul serio" la loro condizione, che infatti viene spesso descritta come "vera","sincera" e, paradosso dei paradossi, "reale".
    Morale: certo che la nostra presenza con la videocamera interferisce, ma non è detto che questa interferenza sia sempre un occultamento di qualche verità "più vera" che rimarrebbe nascosta. Può essere anche il caso inverso, che grazie alla nostra interlocuzione di rilevatori il soggetto sia stimolato a parlare di cose per lui importanti ma che non hanno mai trovato una forma di comunicazione compiuta.

    RispondiElimina
  2. Il lavoro di Labov da lei citato mi sembra molto interessante..il fatto di incalzare un soggetto per spingerlo a parlare di sè tramite determinati argomenti e senza curarsi del mezzo audiovisivo è un altro modo di pensare ad un contesto di ricerca, modo che sinceramente non avevo mai considerato ma che mi sembra appunto apprezzabile, anche per poter essere usato nel nostro laboratorio. Per quanto riguarda le interferenze credo anche io, come ho scritto, che esse ci siano ovviamente..la mia voleva infatti essere una riflessione per provare a comprendere se questo fatto potesse essere positivo, negativo o magari entrambi. La ringrazio per la risposta e per le informazioni citate. Pensando ai "reality" invece, immagino che sì, dopo del tempo i soggetti prendano realmente sul serio la loro condizione considerandola vera. A presto!

    RispondiElimina
  3. Buonasera a tutti,
    ho appena terminato di leggere i commenti/riflessioni che sono emersi qua e là nel blog. Innanzitutto mi pare di aver capito che uno dei dilemmi principali della ricerca risieda nella questione della sincerità o meno del soggetto intervistato dinnanzi a una telecamera. Io penso che indubbiamente una telecamera possa avere una certa influenza su un soggetto intervistato, ma ritengo anche che la situazione non sarebbe molto diversa, ad esempio, se il ricercatore usasse un semplice taccuino su cui annotare le frasi al volo: all'intervistato potrebbero presentarsi dei dubbi, della serie : «chissà se avrà riportato le mie parole o le avrà modificate a suo piacimento? Starà scrivendo delle critiche?».
    Invece credo che una videocamera sia il mezzo migliore ai fini della nostra ricerca: 1-perchè, come ho sostenuto precedentemente, il ricercatore ha modo di rivedere, rivivere l'intervista: non solo risentire le frasi dell'interlocutore, ma anche analizzare le sfumature più sottili come la mimica facciale, i silenzi, le incertezze... 2-perchè una ripresa audio-video consentirebbe anche di far rivedere il tutto all'intervistato: devo dire che questa possibilità la ritengo davvero...politically correct e fruttifica al contempo, nel senso che dopo aver preso visione del video potrebbe nascere un'ulteriore discussione, nella quale, magari l'intervistato stesso con le sue osservazioni, all'oscuro dalla telecamera, potrebbe svelarci qualche dettaglio che avevamo trascurato.
    A domani!
    Sara B.

    RispondiElimina