venerdì 9 aprile 2010

Su Alessandra

Devo ancora vedere gli altri post video (come vogliamo chiamarli? Vost? qualcuno ha idea se esiste un nome per dei post di quello che sta diventando un vlog?) ma credo che le riflessioni online di Alessandra meritino alcuni commenti (pensavo di fare un v-commento, invece di scrivere, ma è molto tardi e le bambine dormono nella stanza accanto, lo farò, se ci riesco, domenica, sugli altri video).
A. Sara chiede se vedere un commento in video crea problemi diversi dalla lettura di un testo, e ovviamente direi di sì. Non so come "sottolineare" un video, come scriverci "a margine", almeno se è un video in streaming online. Ci sono diversi software per annotare e indicizzare video etnografici, e da anni procede un progetto della University of Surrey dedicato alla CAQDAS, vale a dire Computer Assisted Qualitative Data Analysis Software, Programmi per l'analisi qualitativa dei dati con l'ausilio di computer, e ci sono ormai diversi programmi buoni, anche non commerciali, per "prendere appunti", indicizzare e annotare i  video, potremmo parlarne in una sezione dedicata di questo blog, semmai.
B. Alessandra pone, mi pare tre questioni, non necessariamente collegate, e vale a dire:
1. La fallacia percettiva dell'iconicità
2. La questione della relativa indipendenza tra codifica e decodifica
3. L'esposizione di sé nei social networks

Sul primo punto non finiremo mai di porre la nostra attenzione analitica, ma in quanto antropologi, cioè esposti a sistemi culturali in cui è evidente la costruzione culturale della visione (penso al classico esempio della pittura aborigena, che a "noi" pare del tutto astratta, mentre per un Warlpiri è perfettamente "iconica", o almeno chiaramente "descrittiva") credo che siamo meno esposti di altri studiosi al rischio di cadere nel naturalismo della rappresentazione. Comunque questo non ci esime dal tenere a mente non solo che quel che vediamo in un video non è reale, ma anche - e soprattutto - che lo vediamo come lo vediamo perché abbiamo acquisito (in larghissima parte implicitamente e informalmente) una grammatica del visibile che tendiamo ad assecondare.
Sul secondo punto, le riflessioni di Hall sono state importantissime per superare, di nuovo, un certo naturalismo della comunicazione, la "bullet theory" o la "teoria dell'ago ipodermico", secondo cui il significato veniva "sparato" dall'emittente e assorbito passivamente dal ricevente. Ma il modello di Hall è forse ancora troppo meccanico, implica che il significato sia comunque impacchettato nel processo (anche se può andare in pezzi se il decodificatore non ha la stessa chiave impiegata dal codificatore) mentre forse dovremmo forzare ancora un po' di più la agency del soggetto che intepreta (che decodifica, nel linguaggio di Hall) e arrivare ad ammettere che la decodifica "selvaggia" (che cioè non tiene conto del codice della codifica) è un'operazione sempre più comune in un sistema della comunicazione in cui i codificatori del messaggio fanno partire segnali NON SANNO PIU' per quali riceventi. E' quello che dice Wesch sul video segnalato tempo fa, quando parla dei vlog di cui non si conosce il destinatario, è quello che dico nel mio ultimo saggio su Avatar, quando dico che un testo che si rivolge a una platea globale non può più pretendere di avere un'interpretazione "canonica", ed è quello che possiamo notare con i social networks, il che mi porta al terzo punto.
Alessandra ha perfettamente ragione nel notare che dentro i social networks vi può essere un problema enorme di sfasamento tra codifica e decodifica, ma forse non è detto che la cosa sia percepita come un vero problema dagli utenti. Intendo dire che una delle dimensioni fondamentali dei social networks è la loro natura di istigatori narcisistici. Quel che conta, in un social network, non mi pare sia tanto la comunicazione (cioè lo scambio di informazioni e sentimenti tra due o più utenti), quanto piuttosto l'espressione di sé in attesa di un riconoscimento dallo sguardo altrui, in forma di commento, di "mi piace" di "ci sono tre nuovi commenti". Se quindi, come provo a ipotizzare, nei SN non conta scambiare informazioni, ma ottenere riconoscimento, il contenuto del messaggio (e quindi la discrepanza evenutuale tra codifica e decodifica) è in gran parte un problema secondario. Restringendo le mie considerazioni all'uso che ne fanno gli utenti italiani (sarà il caso di cominiciare a pensare alla questione delle "nazionalità" in rete: è evidente che un francese non usa internet come un americano, e fb è mediamente usata dagli italiani molti diversamente da come viene usato dagli egiziani, ad esempio) posso dire che il contenuto di quel che si posta è relativo (a meno che non si "condivida" roba da altre fonti) e buona parte della comunicazione avviene per puri "segnali fàtici": ehi, io ci sono!! Mi vedete! Mi fate esistere dicendo che mi vedete, per cortesia?
In questo contesto, quello che effettivamente viene detto ha poca importanza, e poco può essere decodificato secondo codici alternativi.
Ma i miei sono, per ora, solo pensieri ad alta voce. Domenica conto di tornare a riflettere con un po' più di sistematicità sui video proposti.

1 commento:

  1. Finalmente ri-connessa, leggo nuovamente quanto scritto dal Prof. Vereni. Ho modo di riflettere meglio anche sui concetti fatti emergere da Alessandra. Ripropongo nuovamente la domanda con cui ho concluso un intervento in classe: in che modo i social networks contribuiscono alla definizione del sé (cosa sulla quale avrei piacere di lavorare nelle prossime lezioni). Inoltre mi sono soffermata a rileggere più volte questo piccolo passaggio "una grammatica del visibile che tendiamo ad assecondare", argomento sul quale vorrei poter discutere in classe tutti assieme il prossimo lunedì.

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